Qualità, Sicurezza sul lavoro, Ambiente
Supply Chain

La catena di fornitura è un punto cruciale del successo aziendale. Essa determina la qualità in entrata dei materiali e conseguentemente tutti gli interventi che dovranno essere apportati per far uscire un prodotto secondo i propri standard.

Determina anche buona parte del profilo di rischio aziendale, nel senso che se si interrompe una determinata fornitura non sempre l’azienda ha un’alternativa valida per far fronte all’emergenza.

Determina sicuramente anche buona parte di costi di spesa; una corretta catena di fornitura si deve avvalere di appropriati metodi di misurazione della qualità del prodotto in entrata (che è il primo check point importante) e verificare che il fornitore abbia rispettato tutte le necessarie specifiche rilevanti.

Andare ad auditare un fornitore fa parte del processo di miglioramento, serve cioè a stabilire insieme a lui (se già non ci sono dei requisiti a cui attenersi in modo cogente) dei parametri che influenzano il suo prodotto e che sono importanti per la mia azienda.

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Il fascino della progettazione di un processo di miglioramento continuo è pari solo alla sua complessità in quanto esso è un processo…

Il miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza

Cosa s’intende con il termine miglioramento richiamato dal D.lgs. 81/08? Miglioramento rispetto alla situazione attuale oppure miglioramento rispetto alla conformità indicata e raggiunta ai requisiti di legge?

Effettuando una ricerca nelle definizioni del D.lgs. 81/08 (art.2) non si trova una descrizione di questo termine.

Ci siamo quindi domandati: il miglioramento deve essere rispetto alla situazione attuale presente nella mia Azienda, oppure miglioramento rispetto alla conformità indicata e raggiunta ai requisiti di legge?

Viene quindi da pensare che l’adeguamento al decreto legislativo 626/94, che in Italia aveva recepito le diverse direttive comunitarie, sia la definizione di miglioramento. Mantenendo questo principio, per miglioramento all’interno del D.lgs.81/08, dobbiamo intendere l’adeguamento della mia Azienda anche ai requisiti che tale decreto aggiunge rispetto a quello abrogato (D.lgs. 626/94).

Effettivamente questa definizione potrebbe convincere e trovare anche una spiegazione logica se non fosse che, sempre all’interno della nostra ricerca ipertestuale, iniziamo a trovare una definizione che rende dinamico il termine miglioramento. Più precisamente dove si forniscono i requisiti per la valutazione dei rischi: “valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell’ambito dell’organizzazione in cui essi prestano la propria attività, finalizzata ad individuare le adeguate misure di prevenzione e di protezione e ad elaborare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza”. Questo significa che non è una condizione sufficiente quella di rispettare tutti i requisiti prima del D.lgs. 626/94 e poi del D.lgs.81/08, ma dobbiamo comunque tendere a migliorare continuamente nel tempo rispetto alla condizione esistente di conformità.

In relazione alla definizione di miglioramento che ci siamo dati, viene da chiedersi in cosa e come dobbiamo migliorare rispetto alla situazione di conformità esistente.

In prima analisi viene da pensare a dei parametri misurabili, quali ad esempio il numero di infortuni, il numero di giorni di astensione dal lavoro causati da infortuni, ma cosa altro?

Inoltre, come possiamo ridurre il numero di infortuni e il conseguente numero di giorni di astensione dal lavoro quindi migliorarmi se sono già conforme a tutti i requisiti di legge?

In effetti se in Azienda non ho adottato un sistema di gestione per la salute e sicurezza, come “fortemente” suggerito dall’articolo 30 del D.lgs. 81/08, non ho molti dati che sono tenuto a registrare fatto salvo gli infortuni.

In effetti l’avere un sistema di gestione è di fatto uno strumento che tra le altre cose, ci permette di ottenere un numero importante di dati utili; li definiamo utili perché sono effettivamente l’input del nostro miglioramento e non servono solo per dimostrare che i processi sono monitorati.

Ma di quali dati parliamo?

Nei sistemi di gestione come minimo i dati che si registrano sono:

– Non conformità riscontate durante le attività di audit;

– Incidenti (con o senza infortuni);

– Verifiche di conformità legislativa;

– Segnalazione da parte dei Lavoratori di situazioni di potenziale pericolo;

– Registrazioni prove di emergenza;

– Verifica carico di incendio;

– Registrazioni medicazioni;

– Etc.

Serve quindi una analisi dei dati del sistema che sia in grado di fornirci informazioni utili al miglioramento continuo nel tempo. Nella nostra esperienza sui sistemi di gestione abbiamo approcciato l’analisi dei dati in maniera diversificata in relazione ai dati che andiamo ad analizzare; per esempio, l’analisi di un incidente viene condotta in maniera diversa dall’analisi dei risultati di un audit interno o esterno, lo stesso per gli altri dati.

Mantenendo sempre come esempi l’analisi dei dati degli audit e degli incidenti, vediamo la diversa trattazione.

Analisi dei dati risultanti dagli audit

Questo tipo di attività si effettua andando a registrare una serie di non conformità rispetto a un elenco di controlli ben precisi e codificati relativi al controllo operativo e gestione delle emergenze, quali ad esempio: accessibilità dei presidi antincendio, presenza dei presidi antincendio etc.

Registrando questo tipo di dati andiamo a fare una analisi almeno trimestrale, considerando di effettuare un audit di controllo operativo almeno settimanale.

Ne risultano dei dati in % che sono relativi al rispetto del requisito su base trimestrale come di seguito rappresentato.  

A questo punto abbiamo fatto una buona raccolta dati, ma non una analisi degli stessi.

Per effettuare l’analisi abbiamo bisogno di creare un criterio di selezione, ovvero una discriminate che ci faccia per esempio analizzare solo i risultati inferiori al 80% della conformità. Nell’analisi ci si deve domandare il perché questo requisito non sia completamente rispettato dai Lavoratori, ipotizzando diversi scenari da verificare con gli stessi: il requisito è difficilmente comprensibile? È tecnicamente difficile da rispettare? Esiste una procedura in azienda che dice l’opposto del requisito? Etc.. 

Questo ci serve al fine di individuare l’azione correttiva che deve a questo punto essere posta come misura di miglioramento.

Analisi degli incidenti

Per questo tipo di dato invece la trattazione deve essere diversa, sia che l’ incidente sia origine di un infortunio oppure no. La prima cosa da fare anche in questo caso è quella di effettuare una raccolta dati che sia di fatto un racconto oggettivo dell’accaduto; dopodiché è necessario analizzare l’accaduto con una metodologia come per esempio l’albero delle cause al fine di ottenere la causa dell’incidente e le azioni correttive. Anche queste andranno a far parte delle misure di miglioramento.

Come detto in precedenza questi sono dati utili e ricavabili dal funzionamento di un sistema di gestione per la salute e sicurezza.

E se non ho un sistema di gestione?

Semplice dire che senza un sistema di gestione il miglioramento appare più difficile, ma anche non avendo adottato un sistema di gestione si possono andare a individuare una serie di indicatori sui quali lavorare o più semplicemente si possono comunque fare una serie di registrazioni che ci diano la possibilità di avere dati utili finalizzati al miglioramento della salute e sicurezza dei lavoratori.

Garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza, un principio generale del D.Lgs 81/08, ma anche un obbligo operativo: l’omissione del programma, all’interno del documento di valutazione dei rischi, comporta conseguenze penali.

In conclusione, con una efficace raccolta e analisi dei dati l’Azienda è in grado di ottenere un miglioramento continuo nel tempo finalizzato alla riduzione degli infortuni e malattie professionali.

Testo liberamente tratto da: https://www.puntosicuro.it/approfondimento-C-8/il-miglioramento-delle-condizioni-di-salute-sicurezza-AR-11239/ – Copyright © All Rights reserved 1999-2019 – All Rights Reserved.

Sicurezza sul lavoro

Ciascuno di noi può compiere delle azioni concrete per azzerare gli incidenti sul lavoro.

La cultura della sicurezza si costruisce nel tempo, come una lingua, attraverso l’ascolto, l’imitazione, l’interazione quotidiana. Proprio come un giardino che nasce dall’asfalto.

In Giappone, hanno iniziato a installare giardini galleggianti sui tetti dei parcheggi pubblici. A prima vista sembrerebbero solo spazi inutilizzati, grigi e anonimi, ma qualcuno ha saputo vederli con occhi nuovi. Così, da cemento e asfalto sono nati ecosistemi urbani: abbelliscono il paesaggio, migliorano la qualità dell’aria e danno rifugio a impollinatori fondamentali per la biodiversità.

Questo esempio non parla solo di sostenibilità. Si parla di cambiamento di sguardo. Esattamente ciò che serve anche nel mondo della sicurezza sul lavoro. Per troppo tempo abbiamo guardato al comportamento umano come a qualcosa da correggere. Ora è tempo di andare oltre.

Cultura della sicurezza: un’idea degli anni ‘80, ancora da definire

Spesso sentiamo parlare di “ cultura della sicurezza”: viene di fatto invocata ogni volta che si verifica un evento grave, specialmente se ha una grande risonanza mediatica. La sua definizione un po’ vaga la rende idonea sempre, è un passpartout per qualsiasi forma di retorica si voglia applicare alle questioni di safety.

  • In questo senso è un MITO.

Il termine è diventato popolare negli anni ’80, dopo disastri industriali come Chernobyl e Piper Alpha. In quei contesti, la tecnologia era sofisticata, le procedure esistevano… eppure gli incidenti sono avvenuti lo stesso. Perché? La risposta fu rivoluzionaria: forse non era solo un problema tecnico, ma culturale. Era qualcosa che viveva nelle abitudini quotidiane, nei silenzi, nei comportamenti appresi e non detti.

L’International Atomic Energy Agency (IAEA) nel 1987 la inserisce in un rapporto ufficiale, dando forma all’idea che la sicurezza non dipenda solo da procedure e tecnologie, ma anche da valori, percezioni e comportamenti condivisi. Di seguito, la storica citazione che sancisce l’atto di nascita ufficiale del concetto di cultura della sicurezza nella letteratura della safety.

  • “A deficient safety culture was a significant contributing factor to the accident.”
    (IAEA, 1987, “Summary Report on the Post-Accident Review Meeting on the Chernobyl Accident”)

Ma già prima, negli anni ’20 e ’30, studiosi come Heinrich cominciarono a intuire che la sicurezza dovesse essere parte integrante della progettazione del lavoro e non una funzione separata o un’appendice disciplinare.

  • “An accident is only a symptom of something wrong in the management system.”
    (H. W. Heinrich, Industrial Accident Prevention, 1931)

Negli anni ‘60-‘70 si svilupparono gli studi sull’ergonomia, i fattori umani e i sistemi socio-tecnici (es. Tavistock Institute). Un’intuizione che oggi trova piena cittadinanza nei moderni approcci alla sicurezza. Negli anni ’80 il concetto si sviluppò grazie all’attenzione ai “fattori umani” (che oggi è un tema centrale ma spesso banalizzato). Crebbe la consapevolezza che anche la cultura organizzativa (concetto introdotto in management da autori come Edgar Schein) influenzi direttamente i comportamenti in materia di sicurezza.

Dagli anni ’90 in poi, il concetto di cultura della sicurezza si è diffuso, con contributi da vari autori, e citiamo solo il celebre James Reason, che introdusse la distinzione tra culture patologiche, reattive e proattive, e collega la cultura alla capacità organizzativa di apprendere dagli errori (Reason, J. (1997). Managing the Risks of Organizational Accidents. Aldershot, UK).

La cultura della sicurezza è difficile da definire in modo univoco, ma possiamo dire che è:

  • “Il modo in cui si fanno le cose da queste parti”: la cultura emerge dai comportamenti quotidiani, specialmente sotto pressione. Rivela cosa conta davvero, al di là delle procedure scritte.
  • Il Sistema socio-tecnico: la sicurezza non è solo tecnologia o regole, ma nasce dall’interazione tra persone, strumenti, contesto e organizzazione. È dinamica, non statica.
  • L’ambiente che valorizza la voce dei lavoratori: una cultura matura incoraggia a parlare apertamente di rischi, senza paura. Il silenzio è pericoloso quanto l’errore.
  • Un sistema che apprende: gli incidenti sono segnali da cui imparare, non fallimenti da punire. Una cultura sana trasforma l’errore in occasione di miglioramento.

Ma funziona davvero così?

Teoricamente, sì. Se tutti condividessero i valori orientati alla sicurezza, gli incidenti dovrebbero calare. In pratica, però, molte aziende trasformano il concetto in uno slogan vuoto, o peggio, in uno strumento per colpevolizzare i lavoratori. Si sente dire che “da noi c’è una forte cultura della sicurezza”. Ma se poi analizziamo i dati o ascoltiamo i lavoratori, scopriamo spesso una realtà ben diversa. Perché? Perché si confonde la cultura con la conformità, e si misura con sondaggi, e si monitora con checklist.

  • In questo senso essa è un RITO.

Ma la cultura dovrebbe essere altro: ciò che le persone fanno quando nessuno le guarda.

In alcuni contesti, si è sviluppata una vera e propria “cultura della colpa” camuffata da cultura della sicurezza (quella patologica di Reason). Il messaggio implicito? Se ti fai male è perché “non hai abbastanza cultura della sicurezza”. Risultato: paura di segnalare, chiusura, zero miglioramento.

  • In questo senso essa è un DITO (accusatorio).

Cosa potremmo cominciare a fare?

  • Capire come si lavora davvero, nella realtà.
  • Costruire fiducia tra tutti i livelli organizzativi.
  • Imparare dagli errori, senza cercare colpevoli.
  • Rivedere le regole con chi le vive ogni giorno.
  • Evitare scorciatoie tipo check-list o sondaggi autoreferenziali.
  • Ricostruire omogeneità culturale, in particolare nella percezione del rischio, oggi frammentata da retroterra culturali differenti.

Una metafora radicale: la cultura è una lingua madre

Immagina per un attimo che la cultura della sicurezza non sia un comportamento, né un insieme di norme, ma una lingua.

La cultura della sicurezza non si insegna come un regolamento. Si apprende vivendola, come si impara a parlare da bambini: attraverso l’ascolto, l’imitazione, l’interazione quotidiana.

Quando arrivi in un Paese straniero, puoi imparare la grammatica in classe, ma finché non ascolti davvero chi ci vive, non cogli il senso delle sfumature, dei silenzi, dell’ironia, del ritmo con cui si vive. Così è anche per la sicurezza.

La cultura della sicurezza si comporta come una lingua madre:

  • Ha accenti, dialetti, modi di dire locali.
  • Si evolve nel tempo, anche senza che te ne accorga.
  • È difficile da spiegare, ma evidente da percepire.
  • Non si impone, si assorbe.

Ed ecco il punto chiave: non puoi misurare la cultura con un sondaggio, come non puoi misurare il grado di padronanza linguistica di una comunità con un test a crocette. Puoi solo viverla, ascoltarla, e notare quando stona.

Per questo la vera domanda non è: “La tua organizzazione ha una forte cultura della sicurezza?”
La vera domanda è: “Che lingua si parla davvero quando si affrontano le questioni ?

COME SI COSTRUISCE UNA CULTURA DELLA SICUREZZA?

Non c’è una ricetta unica. Ma ci sono direzioni promettenti:

  • Studiare il lavoro reale (Work-as-Done)
    • Le regole dicono come “dovrebbe essere fatto” (Work-as-Imagined), ma la realtà è più complessa. Capirla richiede ascolto, osservazione, empatia.
  • Costruire fiducia reciproca
    • Nessuno vuole farsi male, né i lavoratori né i datori di lavoro. È sul riconoscimento reciproco che si costruisce la sicurezza.
  • Accettare la variabilità
    • Le persone non sono macchine. La variabilità della loro performance è una risorsa, non un’anomalia.
  • Coinvolgere i lavoratori, ma non superficialmente
    • Non per finta, non solo nei “focus group”. Dare voce significa anche integrare le decisioni in base a ciò che dicono.
  • Imparare insieme, invece di punire
    • Ogni errore è una finestra sul sistema. La domanda giusta non è “chi ha sbagliato?”, ma “perché aveva senso agire così in quel momento?”
  • Abbandonare le scorciatoie
    • I questionari sulla “percezione della sicurezza” non bastano. La cultura si vive, si ascolta, si tocca con mano.

Parlare di cultura della sicurezza significa, in fondo, parlare di cultura del lavoro. È impossibile separare la percezione del rischio dalle esperienze, dalle origini, dai valori delle persone. In contesti multiculturali, come quelli attuali, questo è ancora più vero: ciò che per uno è rischio, per un altro è normalità. Ecco perché oggi non possiamo più pensare la sicurezza come qualcosa da imporre. Va co-costruita, ogni giorno. Con rispetto, con ascolto, con intelligenza collettiva.

IN CONCLUSIONE

La “cultura della sicurezza” non è un’etichetta da appiccicare sulle persone, né un questionario da compilare. È una costruzione continua, che ha bisogno di occhi nuovi, di coraggio e di dialogo vero tra chi pensa e chi agisce. Se vogliamo davvero creare luoghi sicuri, dobbiamo cambiare occhiali: uscire dalla logica del controllo e abbracciare quella della comprensione. Lasciare la caccia all’errore per coltivare l’intelligenza collettiva.

Il suo rischio maggiore? Che la “cultura della sicurezza” venga usata per dire che “è colpa tua perché non ne avevi”. Così invece di creare ambienti sicuri, si generano ambienti silenziati. Le persone evitano di segnalare, si proteggono, non si espongono. E il sistema smette di apprendere.

La Safety non è un lusso per la sicurezza. È una chiave per abitarla davvero. Essa non è l’alternativa, è l’evoluzione. Come i giardini sui tetti.

  • In questo senso la cultura è un AGITO.

Testo liberamente tratto dahttps://www.puntosicuro.it/cultura-della-sicurezza-C-136/cultura-della-sicurezza-mito-rito-dito-agito-AR-25405/ – Copyright © All Rights reserved 1999-2019 – All Rights Reserved.

Scegliere un buon consulente della Qualità

E’ nostra convinzione che il professionista della consulenza, sia che si occupi di Qualità che di altri argomenti, dovrebbe possedere caratteristiche ben precise che …

Alcuni suggerimenti per scegliere un buon consulente per la
gestione del sistema ISO 9001

Per prima cosa bisogna capire che il lavoro di un consulente che si impegni a migliorare i processi dell’azienda che l’ha ingaggiato non è sufficiente se non si è in grado di collegare questo miglioramento ad un aumento della soddisfazione dei clienti di quell’azienda.
Per riuscire in questo difficile compito, il bravo consulente dovrebbe evitare soluzioni rapide e impostare un lavoro basato su soluzioni di tipo sistemico che sono le sole in grado di risolvere quei problemi organizzativi che spesso sono alla base dell’incapacità delle organizzazioni di soddisfare i loro clienti.

L’obiettivo di un intervento di consulenza, dunque, deve essere quello di aggiungere un valore reale e misurabile al lavoro che già fa l’azienda.
Aggiungere valore può significare:

  • migliorare l’affidabilità del prodotto
  • migliorare la reattività nei confronti dei clienti
  • ridurre i cicli di progettazione e sviluppo dei prodotti
  • aggiungere importanti caratteristiche al prodotto
  • ridurre i costi complessivi
  • ecc.

Tutto ciò che abbiamo riportato è misurabile e la chiave di un buon servizio di consulenza è proprio in questo semplice concetto.
Spesso i professionisti che vengono incaricati di lavorare al fianco delle aziende per migliorare la Qualità si impegnano nel migliorare i processi, nel risolvere i singoli problemi, nell’insegnare nuove competenze o nel gestire team di persone ma “dimenticano” di misurare tutti questi benefici.
Un consulente, invece, dovrebbe permettere al cliente di valutare in termini di risultati misurabili la prestazione erogata.

C’è da dire, però, che se questi risultati rimangono spesso alquanto fumosi la colpa è anche dei clienti che non sono in grado di proporre ai consulenti contratti chiari. Impegnarsi in attività di questo tipo senza nemmeno stabilire come si misurerà l’impatto delle prestazioni del consulente sul business aziendale è, però, molto pericoloso.

Vediamo quali suggerimenti sarebbe bene seguire prima di ingaggiare un consulente:

  • garantire che venga svolto il lavoro che chiedete attraverso risultati misurabili;
  • creare le condizioni necessarie perchè le competenze del consulente vengano trasmesse, per la parte di interesse, a chi nell’organizzazione dovrà assicurare continuità con l’intervento di consulenza effettuato;
  • evitare di concordare soluzioni rapide ma pretendere di costruire insieme soluzioni sistemiche capaci di garantire risultati duraturi;
  • pretendere che non ci si limiti a risolvere i problemi ma che ci si impegni a fondo anche per insegnare al cliente come gestirli e risolverli in futuro;
  • diagnosticare insieme i problemi sistemici, tenendo conto di tutti i fattori che possono influenzare l’attuazione di una soluzione o di un’innovazione e che includono:
    • la motivazione del personale
    • la trasmissione di competenze
    • altre caratteristiche tipiche dell’ambiente di lavoro
  • ricorrere a pratiche di benchmarking per apprendere il modo migliore di fare le cose;
  • richiedere un affiancamento tra il cliente e il consulente per tutte le fasi del progetto (definizione, pianificazione, attuazione e valutazione) fino alla risoluzione del problema e all’implementazione di una struttura sistemica che assicuri che lo stesso non si ripresenti in futuro.

Testo liberamente tratto da Qualitiamo.com – https://www.qualitiamo.com/approfondimento/scegliere-consulente.html