Ciascuno di noi può compiere delle azioni concrete per azzerare gli incidenti sul lavoro.
La cultura della sicurezza si costruisce nel tempo, come una lingua, attraverso l’ascolto, l’imitazione, l’interazione quotidiana. Proprio come un giardino che nasce dall’asfalto.
In Giappone, hanno iniziato a installare giardini galleggianti sui tetti dei parcheggi pubblici. A prima vista sembrerebbero solo spazi inutilizzati, grigi e anonimi, ma qualcuno ha saputo vederli con occhi nuovi. Così, da cemento e asfalto sono nati ecosistemi urbani: abbelliscono il paesaggio, migliorano la qualità dell’aria e danno rifugio a impollinatori fondamentali per la biodiversità.
Questo esempio non parla solo di sostenibilità. Si parla di cambiamento di sguardo. Esattamente ciò che serve anche nel mondo della sicurezza sul lavoro. Per troppo tempo abbiamo guardato al comportamento umano come a qualcosa da correggere. Ora è tempo di andare oltre.
Cultura della sicurezza: un’idea degli anni ‘80, ancora da definire
Spesso sentiamo parlare di “ cultura della sicurezza”: viene di fatto invocata ogni volta che si verifica un evento grave, specialmente se ha una grande risonanza mediatica. La sua definizione un po’ vaga la rende idonea sempre, è un passpartout per qualsiasi forma di retorica si voglia applicare alle questioni di safety.
- In questo senso è un MITO.
Il termine è diventato popolare negli anni ’80, dopo disastri industriali come Chernobyl e Piper Alpha. In quei contesti, la tecnologia era sofisticata, le procedure esistevano… eppure gli incidenti sono avvenuti lo stesso. Perché? La risposta fu rivoluzionaria: forse non era solo un problema tecnico, ma culturale. Era qualcosa che viveva nelle abitudini quotidiane, nei silenzi, nei comportamenti appresi e non detti.
L’International Atomic Energy Agency (IAEA) nel 1987 la inserisce in un rapporto ufficiale, dando forma all’idea che la sicurezza non dipenda solo da procedure e tecnologie, ma anche da valori, percezioni e comportamenti condivisi. Di seguito, la storica citazione che sancisce l’atto di nascita ufficiale del concetto di cultura della sicurezza nella letteratura della safety.
- “A deficient safety culture was a significant contributing factor to the accident.”
(IAEA, 1987, “Summary Report on the Post-Accident Review Meeting on the Chernobyl Accident”)
Ma già prima, negli anni ’20 e ’30, studiosi come Heinrich cominciarono a intuire che la sicurezza dovesse essere parte integrante della progettazione del lavoro e non una funzione separata o un’appendice disciplinare.
- “An accident is only a symptom of something wrong in the management system.”
(H. W. Heinrich, Industrial Accident Prevention, 1931)
Negli anni ‘60-‘70 si svilupparono gli studi sull’ergonomia, i fattori umani e i sistemi socio-tecnici (es. Tavistock Institute). Un’intuizione che oggi trova piena cittadinanza nei moderni approcci alla sicurezza. Negli anni ’80 il concetto si sviluppò grazie all’attenzione ai “fattori umani” (che oggi è un tema centrale ma spesso banalizzato). Crebbe la consapevolezza che anche la cultura organizzativa (concetto introdotto in management da autori come Edgar Schein) influenzi direttamente i comportamenti in materia di sicurezza.
Dagli anni ’90 in poi, il concetto di cultura della sicurezza si è diffuso, con contributi da vari autori, e citiamo solo il celebre James Reason, che introdusse la distinzione tra culture patologiche, reattive e proattive, e collega la cultura alla capacità organizzativa di apprendere dagli errori (Reason, J. (1997). Managing the Risks of Organizational Accidents. Aldershot, UK).
La cultura della sicurezza è difficile da definire in modo univoco, ma possiamo dire che è:
- “Il modo in cui si fanno le cose da queste parti”: la cultura emerge dai comportamenti quotidiani, specialmente sotto pressione. Rivela cosa conta davvero, al di là delle procedure scritte.
- Il Sistema socio-tecnico: la sicurezza non è solo tecnologia o regole, ma nasce dall’interazione tra persone, strumenti, contesto e organizzazione. È dinamica, non statica.
- L’ambiente che valorizza la voce dei lavoratori: una cultura matura incoraggia a parlare apertamente di rischi, senza paura. Il silenzio è pericoloso quanto l’errore.
- Un sistema che apprende: gli incidenti sono segnali da cui imparare, non fallimenti da punire. Una cultura sana trasforma l’errore in occasione di miglioramento.
Ma funziona davvero così?
Teoricamente, sì. Se tutti condividessero i valori orientati alla sicurezza, gli incidenti dovrebbero calare. In pratica, però, molte aziende trasformano il concetto in uno slogan vuoto, o peggio, in uno strumento per colpevolizzare i lavoratori. Si sente dire che “da noi c’è una forte cultura della sicurezza”. Ma se poi analizziamo i dati o ascoltiamo i lavoratori, scopriamo spesso una realtà ben diversa. Perché? Perché si confonde la cultura con la conformità, e si misura con sondaggi, e si monitora con checklist.
- In questo senso essa è un RITO.
Ma la cultura dovrebbe essere altro: ciò che le persone fanno quando nessuno le guarda.
In alcuni contesti, si è sviluppata una vera e propria “cultura della colpa” camuffata da cultura della sicurezza (quella patologica di Reason). Il messaggio implicito? Se ti fai male è perché “non hai abbastanza cultura della sicurezza”. Risultato: paura di segnalare, chiusura, zero miglioramento.
- In questo senso essa è un DITO (accusatorio).
Cosa potremmo cominciare a fare?
- Capire come si lavora davvero, nella realtà.
- Costruire fiducia tra tutti i livelli organizzativi.
- Imparare dagli errori, senza cercare colpevoli.
- Rivedere le regole con chi le vive ogni giorno.
- Evitare scorciatoie tipo check-list o sondaggi autoreferenziali.
- Ricostruire omogeneità culturale, in particolare nella percezione del rischio, oggi frammentata da retroterra culturali differenti.
Una metafora radicale: la cultura è una lingua madre
Immagina per un attimo che la cultura della sicurezza non sia un comportamento, né un insieme di norme, ma una lingua.
La cultura della sicurezza non si insegna come un regolamento. Si apprende vivendola, come si impara a parlare da bambini: attraverso l’ascolto, l’imitazione, l’interazione quotidiana.
Quando arrivi in un Paese straniero, puoi imparare la grammatica in classe, ma finché non ascolti davvero chi ci vive, non cogli il senso delle sfumature, dei silenzi, dell’ironia, del ritmo con cui si vive. Così è anche per la sicurezza.
La cultura della sicurezza si comporta come una lingua madre:
- Ha accenti, dialetti, modi di dire locali.
- Si evolve nel tempo, anche senza che te ne accorga.
- È difficile da spiegare, ma evidente da percepire.
- Non si impone, si assorbe.
Ed ecco il punto chiave: non puoi misurare la cultura con un sondaggio, come non puoi misurare il grado di padronanza linguistica di una comunità con un test a crocette. Puoi solo viverla, ascoltarla, e notare quando stona.
Per questo la vera domanda non è: “La tua organizzazione ha una forte cultura della sicurezza?”
La vera domanda è: “Che lingua si parla davvero quando si affrontano le questioni ?“
COME SI COSTRUISCE UNA CULTURA DELLA SICUREZZA?
Non c’è una ricetta unica. Ma ci sono direzioni promettenti:
- Studiare il lavoro reale (Work-as-Done)
- Le regole dicono come “dovrebbe essere fatto” (Work-as-Imagined), ma la realtà è più complessa. Capirla richiede ascolto, osservazione, empatia.
- Costruire fiducia reciproca
- Nessuno vuole farsi male, né i lavoratori né i datori di lavoro. È sul riconoscimento reciproco che si costruisce la sicurezza.
- Accettare la variabilità
- Le persone non sono macchine. La variabilità della loro performance è una risorsa, non un’anomalia.
- Coinvolgere i lavoratori, ma non superficialmente
- Non per finta, non solo nei “focus group”. Dare voce significa anche integrare le decisioni in base a ciò che dicono.
- Imparare insieme, invece di punire
- Ogni errore è una finestra sul sistema. La domanda giusta non è “chi ha sbagliato?”, ma “perché aveva senso agire così in quel momento?”
- Abbandonare le scorciatoie
- I questionari sulla “percezione della sicurezza” non bastano. La cultura si vive, si ascolta, si tocca con mano.
Parlare di cultura della sicurezza significa, in fondo, parlare di cultura del lavoro. È impossibile separare la percezione del rischio dalle esperienze, dalle origini, dai valori delle persone. In contesti multiculturali, come quelli attuali, questo è ancora più vero: ciò che per uno è rischio, per un altro è normalità. Ecco perché oggi non possiamo più pensare la sicurezza come qualcosa da imporre. Va co-costruita, ogni giorno. Con rispetto, con ascolto, con intelligenza collettiva.
IN CONCLUSIONE
La “cultura della sicurezza” non è un’etichetta da appiccicare sulle persone, né un questionario da compilare. È una costruzione continua, che ha bisogno di occhi nuovi, di coraggio e di dialogo vero tra chi pensa e chi agisce. Se vogliamo davvero creare luoghi sicuri, dobbiamo cambiare occhiali: uscire dalla logica del controllo e abbracciare quella della comprensione. Lasciare la caccia all’errore per coltivare l’intelligenza collettiva.
Il suo rischio maggiore? Che la “cultura della sicurezza” venga usata per dire che “è colpa tua perché non ne avevi”. Così invece di creare ambienti sicuri, si generano ambienti silenziati. Le persone evitano di segnalare, si proteggono, non si espongono. E il sistema smette di apprendere.
La Safety non è un lusso per la sicurezza. È una chiave per abitarla davvero. Essa non è l’alternativa, è l’evoluzione. Come i giardini sui tetti.
- In questo senso la cultura è un AGITO.
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